Il cane cattivo
Ho lottato sin dall’inizio e senza l’aiuto di nessuno. Lasciai la mia famiglia in tenera età. Ero di peso e fui invitato dalla madre a cercarmi da solo il pasto quotidiano. Quando una sua zampata mi fece ruzzolare giù dal marciapiede, mentre cercavo di spartire qualche avanzo presso un cassonetto, fu subito chiaro che avrei dovuto cavarmela da solo. Le voltai le spalle e mi avviai per la mia strada.
Le prime azzuffate furono dolorose, ma mi temprarono. Non mi arresi e ogni volta tornavo alla carica sempre con maggiore impeto. Dapprima si presero gioco di me, poi si stancarono e picchiarono duro. Man mano che tornavo all’attacco, poi, incominciarono a preoccuparsi. Non era mai abbastanza per me e quando loro erano stanchi io sentivo crescere in me forza e rabbia.
Diventai il più cattivo, il più temuto, il più feroce. Nessuno voleva avere a che fare con me. Quando passavo la maggior parte cambiava strada, gli altri chinavano il capo.
Divenni un cane robusto e tutti nel vicinato mi temevano. Ma non fu sufficiente: quando meno mi aspettavo un attacco, una rete calò dall’alto. Mi catturarono, ma non fu facile. Due degli accalappiacani si fecero medicare per i morsi, un altro cadde all’indietro e si ruppe una gamba. Gli altri mi tenevano a distanza con i loro bastoni.
Mi portarono in gabbia, una singola. Solo una volta provarono ad affiancarmi un mastino che sembrava imponente, lo osservai per un paio di minuti, mentre il nuovo compagno ringhiava e abbaiava sbavando dappertutto, poi attaccai all’improvviso e il malcapitato cercò invano la fuga. Solo l’intervento rapido dei guardiani lo salvò.
Ero rinchiuso e ringhiavo a tutti quelli che si avvicinavano, sia i carcerieri , sia i visitatori. Fu per questo che mi rinchiusero nell’ultima cella, lontano dall’ingresso.
Man mano osservavo gli altri cani che mansueti accoglievano i visitatori. Gli veniva permesso di uscire dalle gabbie, di farsi accarezzare. Qualcuno andava via con gli ospiti, legato al guinzaglio, scodinzolando allegro.
Quando qualcuno degli ospiti per sbaglio si avvicinava a me subito il ringhio feroce lo faceva fuggire. Nemmeno le guardie si avvicinavano più, tanto che il bagno me lo facevano schizzando acqua con il tubo da fuori alle sbarre.
Poi arrivò lei. Era una ragazza esile, ma determinata e scontrosa. I genitori sembravano cercare un compagno di giochi che placasse quel caratteraccio spinoso, ma lei arricciava il naso e scansava tutti i cani che le venivano proposti. Poi mi intravide, attento, dietro le sbarre. Subito distolsi lo sguardo, infastidito, ma poco dopo tornammo a cercarci con gli occhi. Ero come rapito da quella giovane e selvaggia ragazza.
Glielo sconsigliarono tutti, ma lei non ne volle sapere e si avvicinò decisa. I suoi genitori provarono a intervenire, ma li fulminò con una sola occhiataccia. Pose la mano sulle sbarre della mia cella e mi trovai involontariamente a indietreggiare. Volevo abbaiarle addosso tutta la mia potenza, ma mi uscì solo un misero rantolo.
Mi portarono fuori dalla cella, tenendo ben stretto il guinzaglio, ma non tirai. Ero nervoso per la presenza dei carcerieri, ma il suo sguardo giovane mi calmò. Mi pose una mano sul muso e tutta la tensione si sciolse. Non mi mossi, la fissavo immobile e ci capimmo al volo. Mi sottoponevo a lei, il mio primo capo. Mi fidai, per la prima volta, e lei mi portò con sé, fuori dall’inferno.
Mi chiamò Ciclone e per me era tutto. La ammiravo e l’avrei seguita in capo al mondo. Ci rispettavamo a vicenda e ogni volta, prima di muovere un passo, di iniziare un pasto o di abbaiare, le chiedevo il permesso. Lei in modo impercettibile annuiva e quindi dignitosamente procedevo.
Rimasi con la mia padrona tutta la vita e non rimpiango nessuno di quei momenti, nemmeno questi ultimi, dolorosi, mentre il veleno brucia e entra in circolo . Lei è con me e mi tiene una mano sul muso, questo mi basta. A poco a poco mi arrendo sereno e più non riesco ad alzarmi.
Intanto sento le urla gioiose del suo piccolo figlio, sul quale vegliavo, e con gli occhi ormai spenti scorgo in terra la testa mozza del serpente che ho schiacciato tra le mie fauci.
Ho lottato sin dall’inizio e senza l’aiuto di nessuno. Lasciai la mia famiglia in tenera età. Ero di peso e fui invitato dalla madre a cercarmi da solo il pasto quotidiano. Quando una sua zampata mi fece ruzzolare giù dal marciapiede, mentre cercavo di spartire qualche avanzo presso un cassonetto, fu subito chiaro che avrei dovuto cavarmela da solo. Le voltai le spalle e mi avviai per la mia strada.
Le prime azzuffate furono dolorose, ma mi temprarono. Non mi arresi e ogni volta tornavo alla carica sempre con maggiore impeto. Dapprima si presero gioco di me, poi si stancarono e picchiarono duro. Man mano che tornavo all’attacco, poi, incominciarono a preoccuparsi. Non era mai abbastanza per me e quando loro erano stanchi io sentivo crescere in me forza e rabbia.
Diventai il più cattivo, il più temuto, il più feroce. Nessuno voleva avere a che fare con me. Quando passavo la maggior parte cambiava strada, gli altri chinavano il capo.
Divenni un cane robusto e tutti nel vicinato mi temevano. Ma non fu sufficiente: quando meno mi aspettavo un attacco, una rete calò dall’alto. Mi catturarono, ma non fu facile. Due degli accalappiacani si fecero medicare per i morsi, un altro cadde all’indietro e si ruppe una gamba. Gli altri mi tenevano a distanza con i loro bastoni.
Mi portarono in gabbia, una singola. Solo una volta provarono ad affiancarmi un mastino che sembrava imponente, lo osservai per un paio di minuti, mentre il nuovo compagno ringhiava e abbaiava sbavando dappertutto, poi attaccai all’improvviso e il malcapitato cercò invano la fuga. Solo l’intervento rapido dei guardiani lo salvò.
Ero rinchiuso e ringhiavo a tutti quelli che si avvicinavano, sia i carcerieri , sia i visitatori. Fu per questo che mi rinchiusero nell’ultima cella, lontano dall’ingresso.
Man mano osservavo gli altri cani che mansueti accoglievano i visitatori. Gli veniva permesso di uscire dalle gabbie, di farsi accarezzare. Qualcuno andava via con gli ospiti, legato al guinzaglio, scodinzolando allegro.
Quando qualcuno degli ospiti per sbaglio si avvicinava a me subito il ringhio feroce lo faceva fuggire. Nemmeno le guardie si avvicinavano più, tanto che il bagno me lo facevano schizzando acqua con il tubo da fuori alle sbarre.
Poi arrivò lei. Era una ragazza esile, ma determinata e scontrosa. I genitori sembravano cercare un compagno di giochi che placasse quel caratteraccio spinoso, ma lei arricciava il naso e scansava tutti i cani che le venivano proposti. Poi mi intravide, attento, dietro le sbarre. Subito distolsi lo sguardo, infastidito, ma poco dopo tornammo a cercarci con gli occhi. Ero come rapito da quella giovane e selvaggia ragazza.
Glielo sconsigliarono tutti, ma lei non ne volle sapere e si avvicinò decisa. I suoi genitori provarono a intervenire, ma li fulminò con una sola occhiataccia. Pose la mano sulle sbarre della mia cella e mi trovai involontariamente a indietreggiare. Volevo abbaiarle addosso tutta la mia potenza, ma mi uscì solo un misero rantolo.
Mi portarono fuori dalla cella, tenendo ben stretto il guinzaglio, ma non tirai. Ero nervoso per la presenza dei carcerieri, ma il suo sguardo giovane mi calmò. Mi pose una mano sul muso e tutta la tensione si sciolse. Non mi mossi, la fissavo immobile e ci capimmo al volo. Mi sottoponevo a lei, il mio primo capo. Mi fidai, per la prima volta, e lei mi portò con sé, fuori dall’inferno.
Mi chiamò Ciclone e per me era tutto. La ammiravo e l’avrei seguita in capo al mondo. Ci rispettavamo a vicenda e ogni volta, prima di muovere un passo, di iniziare un pasto o di abbaiare, le chiedevo il permesso. Lei in modo impercettibile annuiva e quindi dignitosamente procedevo.
Rimasi con la mia padrona tutta la vita e non rimpiango nessuno di quei momenti, nemmeno questi ultimi, dolorosi, mentre il veleno brucia e entra in circolo . Lei è con me e mi tiene una mano sul muso, questo mi basta. A poco a poco mi arrendo sereno e più non riesco ad alzarmi.
Intanto sento le urla gioiose del suo piccolo figlio, sul quale vegliavo, e con gli occhi ormai spenti scorgo in terra la testa mozza del serpente che ho schiacciato tra le mie fauci.