Gisgo il punico e l’ancora di TarquiniaSCRITTA NEL FEBBRAIO 2023 PER IL MUSEO DEL MARE E DELLA NAVIGAZIONE DI SANTA SEVERA IN OCCASIONE DELL’ESPOSIZIONE DELL’ANCORA DI TARQUINIA (AVVENUTA NEL GIUGNO 2023)
La prima guerra punica fu decisa dalla battaglia delle Isole Egadi il 10 marzo 241 a.C. La flotta romana, pronta per un agguato, attendeva il passaggio di quella cartaginese carica di rifornimenti per le proprie truppe assediate a Lillibeo. Le navi puniche cercarono di forzare il blocco per portare soccorso in Sicilia, ma non avevano speranza contro la flotta romana, leggera e armata per la battaglia. Sotto la guida del console Gaio Lutazio Catulo i Romani catturarono 120 navi puniche e fecero prigionieri 10.000 soldati della rivale. Il resto della flotta cartaginese fu respinto e non poté mai raggiungere la Sicilia. Poche infatti furono le navi che si salvarono dalla battaglia e che tornarono nel porto di Cartagine. Una di quelle era la nostra. In Sicilia Amilcare, senza rifornimenti, fu costretto alla resa. Ventitré anni di combattimenti, fra alterne vicende, avevano lasciato Cartagine dissanguata e Roma prese il suo posto come maggiore potenza del Mediterraneo occidentale. Il comandante della flotta cartaginese, Annone, finì sotto processo per la sconfitta navale. Il mio nome è Gisgo e lui era mio padre. Avevo partecipato anch'io a quella terribile battaglia, anche se ero ancora un giovane senza esperienza. Ero stato uno spettatore. Stavo sulla nave con mio padre per imparare, il mio battesimo militare. Osservai esterrefatto la velocità con la quale i Romani circondavano le nostre navi e le abbordavano. Ai marinai non rimaneva che arrendersi ed essere fatti prigionieri. Il carico ci impediva di respingere gli assalti, persino di fuggire. Poche navi si salvarono e solo perché si erano attardate. Tra queste c'era quella di mio padre, che quando vide la disfatta comandò la ritirata e salvò dalla cattura quante più navi potesse. Lui era stato un perdente, non aveva nemmeno sacrificato la sua vita in battaglia, come era opportuno. Penso che forse lo fece anche per me, per darmi un futuro. Il processo fu breve e lui venne condannato a morte. Io non ero che un giovane marinaio senza nessuna importanza e quindi mi ignorarono, tuttavia sulla nostra famiglia cadde la disgrazia e perdemmo le nostre terre e i nostri averi. Eravamo stati una delle famiglie più ricche di Cartagine e ora eravamo caduti in disgrazia. La situazione era drammatica, ma quella ahimè non fu l'unica sventura. Cartagine, da sempre concentrata sui commerci, affidava la sua difesa ai mercenari. Erano reclutati presso popoli diversi proprio per evitare che potessero coalizzarsi, tuttavia oramai il controllo di quella massa di soldati era divenuto particolarmente complicato. Nel dopoguerra la città punica non disponeva di fondi per pagare le truppe mercenarie. Questa situazione portò ad un forte malcontento, che sfociò nella rivolta dei mercenari. L'italico Spendio e l'africano Mato si posero a capo dell'insurrezione e portarono ovunque devastazione nei territori punici. Le terre cartaginesi non erano più sicure e sembrava che ogni giorno sprofondassero giù verso gli inferi. Fu in quel momento che alcune navi lasciarono il porto di Cartagine in cerca di fortuna. C'era forse la possibilità di ricominciare altrove una nuova vita. C'erano ancora le colonie, città puniche costruite oltremare, che potevano offrire un nuovo inizio. Tra quei disperati c'ero anch'io, il figlio di Annone, con gli altri familiari che si erano fino ad allora salvati. Fuggimmo lasciandoci alle spalle un paese devastato e sconvolto da disordini e violenze di ogni genere, sapendo in cuore nostro che non avremmo più potuto rivedere la nostra terra natia. La nave fece rotta verso la Sardegna, dove avremmo trovato altri della nostra gente e avremmo cercato fortuna. Quando giungemmo nell'isola, Merida città di Olbia, fummo sollevati nel constatare che era pacificamente sotto il governo punico, né erano presenti disordini di alcun genere. Ci adoperammo per trovare una sistemazione e un'attività commerciale, come era nostro costume. Le abilità non ci mancavano e con la nave compimmo un primo viaggio commerciale nel nord del Tirreno, giungendo fino ad Alalia (Corsica) e a Massalia (Marsiglia), la ricca colonia dei Focesi. I nostri primi affari stavano dando i loro frutti e speravamo di poterci di nuovo sentire a casa, protetti da forti mura e in grado di costruire la nostra fortuna con i commerci. Il primo carico aveva fruttato bene e già progettavamo nuove spedizioni. Sembrava che finalmente avremmo potuto avere una vita normale, ma ci eravamo illusi di poter dimenticare in fretta la disfatta di Cartagine. In realtà non ci aspettavamo che la tragedia potesse raggiungerci anche là. Ma troppo ingenuamente confidavamo in un futuro migliore, che non facemmo caso a segnali evidenti di cambiamento. Un dì razziarono il mercato: tutti i banchi furono depredati e la città cadde nel caos. A ribellarsi e a saccheggiare la città erano i mercenari stanziati in Sardegna. Non essendo stati pagati avevano deciso di riscuotere loro stessi il dovuto. In breve si impadronirono del potere nell'isola, compiendo ogni sorta di violenza. Compresi presto che dovevamo di nuovo migrare. Nella nostra prima spedizione avevamo avuto modo di conoscere la Corsica e decidemmo rapidamente di fuggire là. Attendevamo in porto l'arrivo di tutti i membri del nostro gruppo quando un ragazzo giunse trafelato per avvertirci del pericolo. Taluni di quelli che con noi lasciarono Cartagine, mentre si recavano carichi di merci e denaro all'appuntamento erano stati fermati dai mercenari. Visto il loro carico furono interrogati e alla fine rivelarono tutto: la fuga, il carico prezioso, la nave, tutti i nostri piani. Il nostro oro faceva gola a quei delinquenti. Dovevamo affrettarci e non si poteva più attendere. Eravamo costretti a lasciarci alle spalle i nostri compagni sventurati. Uscimmo in mare controvento. Era notte, la città dormiva e cercammo di farci notare il meno possibile. Alzammo le vele solo fuori dal porto. Tuttavia avvertimmo urla provenienti dal porto che ci allarmarono: ci avevano scoperti. Prendemmo il largo puntando verso nord. In breve due navi ci furono alle calcagna. Erano più veloci, perché non avevano carico, solo predoni armati pronti a sgozzarci tutti per il nostro carico. Il mare mosso minacciava tempesta e il vento ci rallentò nella traversata verso nord. Una delle due navi ci sopravanzò e ci precluse la via verso la Corsica. Viaggiammo nostro malgrado verso est, puntando dritti verso i territori dei Romani. Speravamo che i mercenari, temendo la potenza di Roma, potessero desistere dall'inseguimento, ma, accecati dal desiderio di bottino, continuarono a incalzarci. Non riuscivamo né a virare verso nord, né verso sud. Continuavamo dritti verso lo storico nemico, ormai in preda alla disperazione. Onde alte nascondevano l'orizzonte e il vento ululò nella notte riempiendo di terrore i nostri cuori, già provati dalle vicende di quella sera. Anche le navi inseguitrici furono rallentate dalla burrasca, ma non mostravano di desistere dal loro intento. La preda era alla loro portata e non volevano lasciarsela sfuggire. Solo l'abilità del nostro nocchiero riusciva a tenerle a distanza. La notte passò nel dormiveglia, di volta in volta cercando di allontanarci dalle due barche che ci tallonavano. Queste si alternavano nell'inseguimento e spesso si avvicinavano pericolosamente. Mentre una si teneva alle nostre calcagna non permettendoci di cambiare rotta, l'altra si disimpegnava cercando il vento migliore. Poi, tutto ad un tratto, si ripresentava davanti a noi e tentava l'assalto. Un paio di volte giungemmo quasi a scontrarci, poi, all'ultimo, una virata ci portava in salvo, fuori dalla loro portata. Riprendevamo la fuga fino ad un nuovo attacco. Erano gli inseguitori a determinare la rotta spingendoci sempre avanti e cercando di agganciarci. Una volta furono abbastanza vicini da tentare il lancio di cime e arpioni, per fortuna sempre senza successo. Ma quanto sarebbe durata la nostra fuga? Verso le 6 del mattino i primi raggi del sole nascente ci investirono e, all'improvviso, ci accorgemmo di essere troppo vicini alla nave che da sud ci inseguiva. Fu allora che furono lanciate le cime per poterci abbordare. Gli scafi delle due navi cozzarono violentemente e poi si divisero prendendo direzioni opposte. Le funi vennero strappate via dal mare in tempesta che sospingeva le due navi verso terra. Intanto la seconda nave si preparava all'arrembaggio avendo avuto il tempo di avvicinarsi e di preparare l'assalto. Vedemmo la costa e quello che sembrava un porto. I più esperti ci dissero che era il porto di Tarquinia, una città che in passato fieramente si era opposta a Roma. Disperati e senza alternative puntammo dritti verso quel porto, pronti a fiondarci dentro e a chiedere rifugio. Le navi nemiche ormai si stringevano intorno a noi, serrando la loro morsa. Intendevano ad ogni costo arrestare la nostra fuga e costringerci a consegnare ogni nostro bene. Chissà cosa si aspettavano di trovare a bordo. Noi tenevamo più alla nostra vita che alle ricchezze ma non c'era ahimè spazio per le negoziazioni. Il timoniere decise di virare verso nord speronando la nave sulla nostra sinistra. La manovra mirava a creare spazio per fuggire verso nord, dove appunto si trovava il porto, per poi lanciare la nostra imbarcazione in una folle corsa verso quell'approdo sicuro. E la cosa per un po’ funzionò. Le due imbarcazioni cozzarono con un fragoroso rumore di legni e cordame. In quell'operazione le navi si trovarono appaiate per alcuni lunghi istanti nei quali le due ciurme si guardarono con ostilità e ira, urlando e inveendo alquanto. Tre pirati furono lesti e si lanciarono sul nostro ponte. Solo due riuscirono a raggiungere la nostra nave, il terzo finì schiacciato dalle due chiglie e poi in mare a far da cibo per i pesci. I due si lanciarono verso il timoniere con l'obiettivo di sabotare il nostro viaggio. Una volta ucciso il pilota la nave sarebbe stata in balia dei predoni e i loro compari ci avrebbero abbordato facilmente. Il nostro condottiero non poteva difendersi perché doveva tenere ben stretto il timone. Se fosse stato ucciso sarebbe stata la fine del nostro viaggio. Con un balzo fui loro addosso. Ferii a morte il primo con la mia spada, l'unico oggetto che mi era rimasto di mio padre. Poi fronteggiai l'altro che però era riuscito a colpire il nostro nocchiero. La nave senza guida sbandò ormai pericolosamente vicina alla costa e entrambi finimmo sdraiati sul ponte. Il mercenario non doveva essere un esperto di navigazione e si rialzò con minore prontezza; la qual cosa gli fu fatale. Sbarazzatomi del pirata mi affrettai a soccorrere il pilota che faticava a tenere il timone. Lo aiutai a governare la nave e insieme affrontammo il secondo assalto. La nave che prima era alla nostra destra adesso cercava di farci deviare e di impedirci di raggiungere il porto. Con un abile movimento riuscimmo a colpire il suo fianco, la parte meno protetta e a procurarle una falla. Loro erano spacciati, ma anche la nostra nave scarrocciava senza controllo e stava imbarcando acqua. Nello scontro la vela era stata danneggiata e le speranze di raggiungere il porto erano ormai estremamente ridotte. Forse sarebbe potuta andare bene, ma così non fu. In quel mentre giunse la nave che avevamo deviato a sinistra e i legni cozzarono di nuovo con più raccapriccianti schianti. Il fasciame non resse più e fu la fine. Altro di quella notte non ricordo, solo il freddo abbraccio del mare e niente più. Mi svegliai in un'umile casa di pescatori. Il mare mi aveva portato verso la spiaggia e loro mi avevano salvato da morte certa. Ero rimasto incosciente un giorno e una notte. Mi misero davanti una zuppa calda e una focaccia. Poi, in qualche modo, mi spiegarono quello che avevano visto e la sorte della nave. Quando finii di mangiare mi accompagnarono sulla spiaggia. Il sole splendeva alto e senza pietà, mentre i muscoli ancora mi dolevano. Un'ancora mezza insabbiata sul litorale era quello che rimaneva di intero della nostra nave. Tutt'intorno legni spezzati testimoniavano il naufragio. Gli urti con le altre navi ci avevano irrimediabilmente gettati fuori rotta verso la spiaggia. La burrasca con le sue possenti onde aveva fatto il resto. Della nave rimaneva ben poco perché ogni sua parte di qualche utilità era stata portata via dalla gente del posto. Ogni cosa meritava un nuovo utilizzo e nulla andava sprecato. Sembrava che neanche le altre navi ce l'avessero fatta e fossero colate a picco in mare. Io ero stato salvato dai pescatori che avevano anche raccolto e seppellito gli altri corpi. Nessuno si era salvato dalla tempesta e una duna più alta era diventata il loro tumulo. Il destino aveva voluto darmi un'altra possibilità. Non avevo più nulla, ma conservavo il bene più prezioso: la vita. Posi una mano sul legno di quella speciale opera dell'ingegneria punica. L'ancora mi restituì energia e coraggio. Con una consapevolezza nuova seppellivo con l’ancora anche il mio drammatico passato. Lavato dal mare di tutte le scorie della vita passata mi accingevo allora a ricominciare tutto da capo. Una nave nel porto di Tarquinia era in partenza verso Puteoli. Ero in parola con il capitano. Il mare sarebbe stato la mia casa, a nessuna patria sarei appartenuto, nessun legame, solo io e il mare. |
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